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Per Aspera Ad Veritatem n.27
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio

III Comunicazione nazionale dell’Italia alla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici



Il documento del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, che pubblichiamo in stralcio preceduto dall’indice completo, è stato elaborato, nell’ottobre 2002, nell’ambito di comunicazioni periodiche previste dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UnFcc - United Nations Framework Convention on Climate Change).
L’organismo delle Nazioni Unite e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio sono stati inoltre gli enti organizzatori della Nona Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici (Cop9), svoltasi a Milano nel corso del mese di dicembre 2003, importante momento di incontro e scambio a livello internazionale dopo il summit di Johannesburg.



INDICE GENERALE


Premessa
Autori

1. Sintesi

2. Specificità nazionali
2.1 Struttura del governo
2.2 Popolazione
2.3 Economia
2.4 Caratteristiche dei macro settori economici
2.5 Andamento delle emissioni nazionali di gas serra e confronti internazionali
3. Inventario dei gas-serra
3.1 Sintesi dei dati di emissione
3.2 National system per la preparazione dell’inventario nazionale dei gas-serra
3.3 Serie storica delle emissioni dei gas serra
3.4 Assorbimenti di anidride carbonica dalle foreste

4. Politiche e misure di mitigazione
4.1 Sintesi delle misure previste ai fini del raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto
4.2 Settore energia: produzione, trasformazione e distribuzione
4.3 Settore industria
4.4 Settore mobilità e trasporti
4.5 Settori residenziale, commerciale e dei servizi
4.6 Strategie intersettoriali
4.7 Emissioni da fonti non energetiche
4.8 Settore forestale
4.9 Meccanismi flessibili

5. Proiezioni ed effetti delle politiche e misure
5.1 Il contesto internazionale ed europeo
5.2 Scenario di emissione aggiornato, emissioni complessive
5.3 Emissioni da uso di energia
5.4 Emissioni dagli altri settori
5.5 Proiezioni energetiche ed effetti delle politiche e misure
5.6 Scenari della snc (seconda comunicazione nazionale)

6. Valutazioni di vulnerabilità, impatti dei cambiamenti climatici e adattamento
6.1 Variazioni ambientali osservate in Italia
6.2 Impatti dei cambiamenti climatici attesi e valutazione della vulnerabilità
6.3 Misure di adattamento
6.4. Il quadro normativo delle misure di adattamento ai cambiamenti climatici
6.5 La valutazione di vulnerabilità, gli impatti dei cambiamenti climatici e l’adattamento nei documenti programmatici del Governo italiano

7. Risorse finanziarie e trasferimento di tecnologie
7.1 L’aiuto pubblico allo sviluppo
7.2 Cooperazione multilaterale per l’ambiente
7.3 Cooperazione bilaterale con i PVS
7.4 Cooperazione bilaterale con i paesi dell’Europa centro e sud orientale e della Comunità degli Stati Indipendenti
7.5 La cooperazione scientifica
7.6 La cooperazione del settore privato

8. La ricerca sul cambiamento climatico e sui suoi effetti
8.1 Attività di monitoraggio, osservazione e misura
8.2 Simulazioni numeriche del clima
8.3 Studi di impatto
8.4 Ecosistema dei mari italiani
8.5 Desertificazione
8.6 Partecipazione italiana a programmi di ricerca

9. Informazione, formazione e partecipazione
9.1 L’educazione ambientale in Italia
9.2 Le attività della Pubblica Amministrazione
9.3 Le attività delle organizzazioni non governative
9.4 I mezzi di comunicazione
9.5 Conclusioni
Allegato 1 Revisione delle linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra (Legge 120/2002)

Allegato 2 Provvedimenti, norme, Istituti legislativi e strumenti amministrativi per interventi di mitigazione e di adattamento ambientale ai cambiamenti climatici a livello nazionale

Allegato 3 Bibliografia

(...)


6. VALUTAZIONI DI VULNERABILITÀ, IMPATTI DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI E ADATTAMENTO

Introduzione
In questo capitolo vengono indicati gli impatti e la vulnerabilità al cambiamento climatico in Italia nei vari settori coinvolti e delineate le strategie di adattamento ai cambiaINDICE GENERALE

Premessa
Autori

1. Sintesi

2. Specificità nazionali
2.1 Struttura del governo
2.2 Popolazione
2.3 Economia
2.4 Caratteristiche dei macro settori economici
2.5 Andamento delle emissioni nazionali di gas serra e confronti internazionali
3. Inventario dei gas-serra
3.1 Sintesi dei dati di emissione
3.2 National system per la preparazione dell’inventario nazionale dei gas-serra
3.3 Serie storica delle emissioni dei gas serra
3.4 Assorbimenti di anidride carbonica dalle foreste

4. Politiche e misure di mitigazione
4.1 Sintesi delle misure previste ai fini del raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto
4.2 Settore energia: produzione, trasformazione e distribuzione
4.3 Settore industria
4.4 Settore mobilità e trasporti
4.5 Settori residenziale, commerciale e dei servizi
4.6 Strategie intersettoriali
4.7 Emissioni da fonti non energetiche
4.8 Settore forestale
4.9 Meccanismi flessibili

5. Proiezioni ed effetti delle politiche e misure
5.1 Il contesto internazionale ed europeo
5.2 Scenario di emissione aggiornato, emissioni complessive
5.3 Emissioni da uso di energia
5.4 Emissioni dagli altri settori
5.5 Proiezioni energetiche ed effetti delle politiche e misure
5.6 Scenari della snc (seconda comunicazione nazionale)

6. Valutazioni di vulnerabilità, impatti dei cambiamenti climatici e adattamento
6.1 Variazioni ambientali osservate in Italia
6.2 Impatti dei cambiamenti climatici attesi e valutazione della vulnerabilità
6.3 Misure di adattamento
6.4. Il quadro normativo delle misure di adattamento ai cambiamenti climatici
6.5 La valutazione di vulnerabilità, gli impatti dei cambiamenti climatici e l’adattamento nei documenti programmatici del Governo italiano

7. Risorse finanziarie e trasferimento di tecnologie
7.1 L’aiuto pubblico allo sviluppo
7.2 Cooperazione multilaterale per l’ambiente
7.3 Cooperazione bilaterale con i PVS
7.4 Cooperazione bilaterale con i paesi dell’Europa centro e sud orientale e della Comunità degli Stati Indipendenti
7.5 La cooperazione scientifica
7.6 La cooperazione del settore privato

8. La ricerca sul cambiamento climatico e sui suoi effetti
8.1 Attività di monitoraggio, osservazione e misura
8.2 Simulazioni numeriche del clima
8.3 Studi di impatto
8.4 Ecosistema dei mari italiani
8.5 Desertificazione
8.6 Partecipazione italiana a programmi di ricerca

9. Informazione, formazione e partecipazione
9.1 L’educazione ambientale in Italia
9.2 Le attività della Pubblica Amministrazione
9.3 Le attività delle organizzazioni non governative
9.4 I mezzi di comunicazione
9.5 Conclusioni

Allegato 1 Revisione delle linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra (Legge 120/2002)

Allegato 2 Provvedimenti, norme, Istituti legislativi e strumenti amministrativi per interventi di mitigazione e di adattamento ambientale ai cambiamenti climatici a livello nazionale

Allegato 3 Bibliografia


(…)

6. VALUTAZIONI DI VULNERABILITÀ, IMPATTI DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI E ADATTAMENTO

Introduzione
In questo capitolo vengono indicati gli impatti e la vulnerabilità al cambiamento climatico in Italia nei vari settori coinvolti e delineate le strategie di adattamento ai cambiamenti stessi. Viene inoltre fornita una panoramica delle misure di adattamento prioritarie e le azioni prese a livello governativo che vanno in questa direzione.



A cura di: Fabrizio Antonioli, Orietta Casali, Vincenzo Ferrara, Carlo Pona, Maurizio Sciortino (Enea); Teresa Nanni (Isac-CNR); Sandro Federici, Roberta Quaratino, Riccardo Valentini (Università della Tuscia); Gretel Gambardelli, Alessandra Goria.



6.1 Variazioni ambientali osservate in Italia

6.1.1 Trend di temperatura e di precipitazioni
Un ingente patrimonio di documentazioni storiche ha permesso di realizzare un quadro dell’evoluzione del clima e valutare i cambiamenti in atto in una prospettiva di lungo periodo. Ricerche e progetti hanno documentato i più rilevanti fenomeni climatici ed il loro impatto sul tessuto sociale ed economico del territorio a partire dall’anno 1000 (Pfister, et al., 1999; Camuffo et al., 2002). Le prime registrazioni strumentali a Roma, Milano, Padova e Bologna risalgono al XVIII secolo. Le singole serie storiche secolari e plurisecolari di valori mensili e giornalieri delle temperature e delle precipitazioni sono state vagliate ed analizzate nell’ambito di programmi scientifici nazionali ed europei (Moberg, A., et al., 2000). A partire dalla seconda metà del XIX secolo le stazioni disponibili sono molto più numerose. L’ISAC-CNR in collaborazione con l’Istituto di Fisica Applicata dell’Università di Milano, ha svolto ricerche di climatologia storica. A questo scopo ha organizzato una banca dati di serie storiche di temperatura e precipitazioni, sia mensili che giornaliere. Le serie secolari (1865-2000) provengono da UCEA e dai Servizi Idrografici, mentre quelle pluri-decennali (1951-2000) provengono dal Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare. Le serie sono state in parte completate, digitalizzate, ed omogeneizzate in modo tale da poter estrarne un segnale climatico. L’analisi delle serie storiche (circa 40) relative al periodo 1865-1996 (Buffoni et al., 1999; Brunetti et al., 2000, Brunetti et al., 2001) indicano che:
• le temperature massime e minime mensili sono aumentate in modo differenziato nelle regioni del Nord e del Centro-Sud;
• la temperatura massima è aumentata nel periodo di osservazione di circa 0,6 °C al Nord e di 0,8 °C al Centro-Sud;
• la temperatura minima è aumentata di circa 0,4°C al Nord e 0,7° al Centro-Sud;
• l’inverno è la stagione in cui le temperature massime e minime sono aumentate maggiormente sia al Sud che al Nord;
• a partire dal 1930 nel centro e sud Italia, si riscontra insieme all’incremento delle temperature, una progressiva riduzione delle precipitazioni e quindi un incremento delle condizioni di aridità. I risultati disponibili delle analisi delle settanta-
cinque serie di precipitazione giornaliera relativi al periodo dal 1951-1996 (Brunetti et al., 2001; 2002), evidenziano che:
• le precipitazioni sono diminuite in tutto il territorio nazionale nel periodo preso in esame con maggiori riduzioni al Centro-Sud rispetto al Nord, figura 1;
• la riduzione del numero dei giorni di pioggia sul territorio nazionale (circa 14% sia al Nord che al Sud) è statisticamente significativa e l’inverno è la stagione in cui si verificano le riduzioni maggiori, fig. 2;
• in tutte le stagioni si riscontra un incremento dell’intensità delle precipitazioni sia al Nord che al Sud;
• la persistenza dei periodi siccitosi è maggiore al Nord in inverno e al Sud in estate. I trend osservati in Italia sono attribuibili sia a variazioni della circolazione atmosferica che all’aumento del contenuto di umidità dell’atmosfera dovuto agli incrementi locali e globali della temperatura. Le riduzioni di precipitazioni invernali osservate sono attribuibili all’incremento della frequenza ed alla maggiore persistenza dei cicloni extratropicali sul bacino del Mediterraneo (Colacino, 1993; Maugeri et alt., 2001) mentre l’incremento dell’intensità delle precipitazioni è spiegabile con un’intensificazione del ciclo idrologico.

6.1.2 Innalzamento del livello del mare
All’innalzamento del livello del mare contribuiscono diverse cause, quali: l’espansione termica degli oceani, lo scioglimento dei ghiacciai delle medie e basse latitudini, lo scioglimento delle calotte polari. Secondo l’ultimo rapporto IPCC, i diversi contributi, entro la fine del 2100, sono così suddivisi (il segno + indica contributo positivo all’innalzamento del livello del mare, il segno – viceversa):
• espansione termica: da +20 a +37 cm;
• contributo ghiacci artici: da +2 a +5 cm;
• contributo ghiacci antartici: da -8 a -2 cm;
• contributo di tutti gli altri ghiacciai (esclusi quelli polari): da +8 a +11 cm.
In seguito a precise misurazioni effettuate dal satellite Topex-Poseidon. È stato rilevato un tasso di risalita degli oceani medio mondiale di circa 0,7 mm/a-1, dovuto all’espansione termica (fig. 3). A livello regionale l’innalzamento del livello del mare è diverso a seconda delle diverse regioni del globo.




Nel Mediterraneo tale innalzamento dovrebbe essere contenuto tra i 20 cm ed i 30 cm al 2100 non tenendo conto dei movimenti verticali tettonici. Poiché l’Italia settentrionale, soprattutto nella parte orientale, ha un lento movimento di sprofondamento rispetto all’Italia meridionale, l’innalzamento effettivo del livello del mare tenderà ad essere maggiore sulle coste dell’Italia settentrionale rispetto a quelle dell’Italia meridionale. A questi livelli di innalzamento risulterebbero a rischio inondazione (secondo uno studio della NASA-GISS) circa 4500 chilometri quadrati di aree costiere e pianure distribuite nel modo seguente:
• 25,4% nel nord dell’Italia (nord Adriatico);
• 5,4% nell’Italia centrale (le coste tra Ancona e Pescara; le coste vicino a Roma e Napoli);
• 62,6% nell’Italia meridionale (Golfo di Manfredonia, coste tra Taranto e Brindisi, Sicilia sud orientale);
• 6,6% in Sardegna.
Tuttavia per quanto riguarda il mare Mediterraneo e quindi anche i mari italiani, sembrerebbe che, nel corso degli ultimi 30 anni, si siano verificati andamenti diversi rispetto a quelli degli oceani osservati su scala globale.
Gli stessi dati del satellite Topex Poseidon riferiti al Mediterraneo e l’analisi di mareografi unitamente ad altre osservazioni indicherebbero vistose anomalie o addirittura una stasi nella risalita del mare da almeno 30 anni. Questo andamento, se paragonato con quello della media degli Oceani implicherebbe necessariamente la formazione di una sorta di “scalino” che dovrebbe formarsi presso lo stretto di Gibilterra. Le ipotesi che spiegherebbero la cause di questo fenomeno sono state recentemente pubblicate da Pirazzoli & Tomasin 1999, Tsimplis & Baker 2000 e Tsimplis & Josey 2001 e vengono tutte interpretate come dovute a variazioni atmosferiche (pressione) o di vento. In pratica un sostanziale aumento medio della pressione terrebbe “schiacciato” il mare. Sta di fatto che i mari italiani, secondo le analisi mareografiche e/o meteoclimatiche hanno recentemente mostrato un sostanziale “stabilità”.
A supporto di questi nuovi dati, vi è la conferma della formazione di uno “scalino” a Gibilterra, come risulta anche da recenti ricerche ENEA (Sannino et al., 2002).
Anche se l’area mediterranea, per il momento non appare tra le più critiche per problemi di popolazioni a rischio di inondazione è, comunque fra quelle mondiali a più alta vulnerabilità in termini di perdita di zone umide ed in particolare degli ecosistemi e della biodiversità marino-costiera.
L’invasione marina delle aree costiere basse e delle paludi costiere, accelera l’erosione delle coste, aumenta la salinità negli estuari e nei delta e a causa dell’ingresso del cuneo salino, produce una maggiore infiltrazione di acqua salata negli acquiferi della fascia litorale.
Le coste basse saranno inoltre maggiormente esposte alle inondazioni in caso di eventi meteorologici estremi accompagnati da onde superiori a 5 metri: in queste condizioni, inoltre, il deflusso dei fiumi nel mare, è più difficoltoso, e aumentano le probabilità di straripamenti e di alluvioni.
Va osservato, comunque, che i maggiori rischi valutati per l’Italia sono in realtà rischi aggiuntivi di quelli già esistenti a causa della attuale pressione antropica e dell’uso dei territori costieri. Infatti, almeno per quanto riguarda l’Italia, i cambiamenti climatici non tendono a creare nuovi rischi, ma tendono ad accentuare ed amplificare (con effetti talvolta non prevedibili) i rischi già esistenti derivanti dalla urbanizzazione, dalla produzione industriale, dalla pesca, dal turismo, dai trasporti marittimi, ecc.

6.1.2.1 Livello del mar Tirreno, nuovi dati dall’ENEA
In un Workshop internazionale organizzato presso l’Accademia dei Lincei di Roma è stato fatto il punto sulle attuali conoscenze relative alle oscillazioni climatiche occorse nel Mediterraneo durante l’Olocene (ultimi 10 ka). In questa sede sono stati presentati i primi dati riguardanti una ricerca ENEA sui solchi di battente scolpiti sulle falesie carbonatiche del mare Tirreno. La formazione del solco di battente (figg. 4 e 5) è strettamente legata alla stabilità del mare e della roccia nella quale si forma. Durante periodi di risalita rapida del mare o di instabilità tettonica della costa, il solco di battente non riesce a formarsi. La formazione del solco è dovuta all’azione fisica delle onde e soprattutto alla corrosione chimica dell’acqua marina miscelata ad acqua dolce. Il solco di battente quindi è presente solo in zone costiere di comprovata stabilità tettonica e in momenti di stillstand del livello del mare. Prova di questa ipotesi è che nelle zone dove l’attività tettonica supera tassi superiori a 0,3/0,4 mm/a (in Sicilia orientale per esempio) il solco non si forma. La concavità del solco ricalca con precisione le massime e minime attività mareali. Fatte queste premesse è stato monitorato per tre mesi il solco di battente fotografato nella fig. 4 (Cala di Luna, Sardegna) e le massime escursioni mareali non hanno mai superato la concavità superiore del solco, che peraltro corrisponde all’ampiezza del regime mareale (fig. 5). È noto che i solchi di battente hanno una età media di circa 200/300 anni. Se l’attuale livello massimo mareale non supera la concavità più alta vuol dire che il mare sta quasi fermo.






6.1.3 Vulnerabilità delle coste italiane
La vulnerabilità, come noto, è strettamente correlata alla quota topografica alla quale si trova quella superficie rispetto al livello del mare, alla litologia ma sopratutto al valore del tasso di sollevamento del mare. Se però, come sembrerebbe, il sollevamento dei mari italiani non presenta evidenti valori positivi, è necessario spiegarci perché esistono zone che rischiano di essere allagate dal mare o evidenti fenomeni di erosione costiera. La risposta è che i fenomeni legati ai movimenti tettonici costieri in un bacino sismicamente attivo come quello di molte zone costiere italiane presentano una valenza di grande importanza e, presumibilmente quasi da soli sono in grado di caratterizzare in senso negativo le zone costiere. I movimenti non legati a quello eustatico del mare, in grado di procurare spostamenti verticali negativi (e positivi) sono: tettonica, subsidenza e isostasia. La tettonica è costituita da quell’insieme di fenomenologie geologiche legate alla presenza di faglie che in seguito ai movimenti tra zolle tengono in costante movimento porzioni di crosta terrestre. I movimenti tettonici possono essere positivi, negativi o trascorrenti. Numerose porzioni di zone costiere italiane sono affette da tettonica attiva con movimenti verticali positivi o negativi che possono



superare i 2 mm/a. La subsidenza è quell’insieme di movimenti negativi che occorrono nelle pianure costiere indotti da costipamento di particolari formazioni geologiche come le torbe da cause antropiche (emungimento di acque o gas). I fenomeni isostatici sono invece movimenti elastici del mantello dovuti alle variazioni di ghiaccio od acqua che insistono sulle piattaforme continentali. Tali movimenti avvengono in correlazione con i fenomeni ciclici delle glaciazioni e le conseguenti ingressioni e regressioni marine e possono essere modellati e previsti (Lambeck & Jhonston, 1995, Lambeck & Bard, 2000).





Esistono per le coste italiane alcuni dati preliminari che mettono in evidenza come tali movimenti isostatici (che raggiungono valori di qualche metro per gli ultimi 6000 anni) siano direttamente proporzionali alla latitudine (fig. 6). In uno studio commissionato dal Ministero dell’Ambiente all’ENEA (2001) " ; onClick='AvviaNota(2001)' >(2001)</A>] viene rilevato che alla luce della grande variabilità tettonica e isostatica italiana (sollevamenti e abbassamenti della porzione costiera), risulterebbe assai più rilevante lo studio del comportamento tettonico delle aree pianeggianti volto ad individuarne con precisione i tassi di variazione. Infatti rispetto ai tassi di risalita media attesi per i mari italiani (circa 0,2-0,4 mm/anno), molte zone costiere a potenziale rischio (perché già topograficamente depresse, sotto il livello del mare) presentano valori di sollevamento o abbassamento che sono assai più alti dei tassi di risalita del mare. Nella figura 5 oltre alla superficie della porzione costiera attualmente posizionata al livello zero (o sotto il livello del mare), evidenziata in rosso, viene introdotto un fattore relativo al trend tettonico relativo alla pianura in oggetto. Se il numero corrisponde al valore di 7 significa che la piana è stabile, se è superiore a 7 che la piana è in sollevamento, se inferiore a 7 che la piana è in abbassamento. I primi risultati di questo studio mettono infatti in evidenza che le 33 pianure costiere italiane a potenziale rischio di allagamento del mare (fig. 7) siano in effetti ubicate per la maggior parte in zone stabili od in sollevamento. Rimangono invece presumibilmente dei problemi in un prossimo futuro per la Pianura Padano-Veneta (fig. 8), La Versilia (fig. 9), e le pianure di Fondi e Pontina che, oltre a presentare parecchi chilometri quadrati a quote inferiori allo zero, mostrano abbassamenti tettonici di notevole entità.



Alcuni progetti geologici ENEA, avviati di recente, hanno l’obiettivo di appurare i tassi di abbassamento (tettonico e isostatico e antropico) con apposite azioni su tutte le piane costiere italiane con porzioni di territorio a rischio allagamento.

6.2 Impatti dei cambiamenti climatici attesi e valutazione della vulnerabilità

6.2.1 Dimensione socio-economica della vulnerabilità e degli impatti del cambiamento climatico in Italia
Gli impatti del cambiamento climatico sul sistema naturale e sociale del nostro paese comportano costi e benefici variabili in relazione al grado di vulnerabilità del territorio. La vulnerabilità al cambiamento climatico risponde non solo a criteri di natura ambientale, ma anche sociale ed economica, in quanto dipende dalla capacità dell’intero sistema di far fronte a fattori di stress e di ripristinare una situazione di equilibrio. Questa capacità dipende da innumerevoli fattori, fra i quali la ricchezza e la sua distribuzione, la tecnologia, l’educazione, la conoscenza, le infrastrutture, la disponibilità e l’accesso alle risorse, le capacità gestionali, il livello di integrazione e di coesione sociale, oltre naturalmente alla fragilità ecologica e ambientale. Sfruttando una classificazione usata in letteratura (Burton et al., 1993) , che raggruppa le misure di adattamento in otto categorie (capacità di sopportare le perdite legate ai cambiamenti climatici, di dividere le perdite, di modificare la ‘minaccia’, di prevenirne gli effetti, di cambiare gli usi di beni e servizi influenzati dai cambiamenti climatici, di cambiare ubicazione delle attività produttive, di investire in ricerca, e infine di educare, informare e incoraggiare comportamenti diversi), si può osservare come diversi livelli di sviluppo economico di un paese o di una regione permettano di adottare determinate misure di adattamento ai cambiamenti climatici, rendendo il paese o la regione più o meno vulnerabile ai cambiamenti stessi. Ad esempio, le regioni povere sono più vulnerabili in quanto meno capaci di sopportare delle perdite attuando delle misure in risposta ai cambiamenti, di ri-localizzare le attività economiche, di investire nella ricerca a favore di nuove tecnologie e altre misure di adattamento, di diffondere informazione e conoscenze in grado di modificare il comportamento individuale e degli agenti di produzione. I settori generalmente identificati come più vulnerabili nel nostro Paese sono l’agricoltura, le foreste, le acque, il turismo e la salute; le aree ritenute più vulnerabili sono le zone costiere e le zone alpine, soggette rispettivamente alle previsioni di innalzamento delle acque del mare e di mutamento del ciclo idrologico. Numerosi studi offrono stime sulla grandezza “fisica” degli impatti. Quasi totalmente assenti invece sono studi volti ad esplorare la dimensione sociale ed economica della vulnerabilità e degli impatti del cambiamento climatico, utili soprattutto nell’orientare le politiche di adattamento. Esistono, in realtà, alcuni studi che forniscono un valore economico degli impatti dei cambiamenti climatici, ma si tratta per lo più di analisi condotte a scala mondiale, basate sui risultati di modelli di equilibrio economico generale. Poiché tali modelli non sono specifici per Paese, ma si riferiscono a macroaree, da essi si può ottenere solo una stima molto approssimativa applicabile alla maggioranza dei Paesi Sviluppati. Ad esempio Nordhaus, in uno studio condotto sugli Stati Uniti ma applicabile in generale ai Paesi Sviluppati, dopo aver raccolto le opinioni di esperti in vari settori, arriva ad una stima di impatto totale compresa fra 0,7% e 8,2% del PIL degli USA, con un intervallo di confidenza del 90% e un valore mediano pari a 1,9%. Anche altri studi si assestano intorno al 2% del PIL nazionale dei Paesi Sviluppati. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni risultati interessanti sono emersi dal progetto WISE (Weather Impacts on Natural, Social and Economic Systems), finanziato dalla Commissione Europea e condotto, per quanto riguarda il nostro Paese, da un gruppo di ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei nel corso del triennio 1997-1999, volto a valutare l’impatto delle variazioni nel clima, in particolare di estati molto calde e di inverni miti, sui sistemi naturali, sociali ed economici di alcuni paesi Europei, comprendendo là dove possibile anche una valutazione economica. Lo studio è stato di duplice natura, riguardando sia la valutazione quantitativa degli impatti delle variazioni nel clima su

alcuni settori dell’economia mediante l’utilizzo di modelli econometrici e dati delle statistiche nazionali, sia analizzando la percezione individuale degli impatti del cambiamento climatico sulla vita di tutti i giorni attraverso questionari ed interviste. In Italia, i risultati dell’indagine soggettiva, condotta nel 1998, basata sui risultati di un questionario rivolto ad un campione di 300 individui estratto dalle regioni Lombardia e Sicilia mostrano indiscutibilmente che stagioni climatiche estreme, in particolare le estati molto calde, hanno un impatto negativo sulla vita degli individui intervistati; in genere il benessere, il lavoro, il tempo libero, la salute, le attività domestiche, la scelta dei mezzi di trasporto sono fortemente influenzati dagli estremi climatici. Entrando più nel dettaglio, rispetto agli incendi, il modello stima che nel 1985, anno in cui si è verificata un’estate eccezionalmente calda e asciutta, vi è stato un aumento nel numero degli incendi medi per regione imputabile alle variazioni climatiche pari a 328. Negli anni in cui si sono verificate le estati più calde, il 1985 ed il 1994, le spese di ripristino per i danni derivanti dagli incendi sono state superiori del 26,3% rispetto alle spese di ripristino sostenute nella stagione precedente. Per quanto riguarda il turismo, le stime rivelano che il turismo domestico è abbastanza sensibile alle variazioni climatiche, anche se la variazione della domanda di turismo muta nell’arco dell’anno e in relazione alle caratteristiche delle regioni considerate, con degli effetti totali che sembrano compensarsi. Misurando i flussi di turismo interno in base al numero di notti registrate presso gli esercizi ricettivi del turismo, le stime mostrano che mesi estivi molto caldi tendono a diminuire il flusso di turismo stagionale in misura pari a 39.494 registrazioni per notte in media per regione, ovvero dell’1,22% rispetto al numero di prenotazioni registrate in condizioni climatiche nella norma. Tuttavia, la distribuzione regionale degli effetti di un aumento della temperatura non è omogenea: il turismo estivo verso le sole zone costiere aumenta in corrispondenza di estati particolarmente calde. Nelle sole regioni costiere si stima che un aumento di 1° nella temperatura estiva comporti un aumento pari a 62.294 registrazioni per notte. Nelle regioni alpine, invece, un aumento della temperatura ed una diminuzione della piovosità invernale rispetto alla norma hanno un impatto negativo sul turismo invernale. Si stima che un aumento di 1° nella temperatura nel mese di dicembre comporti una diminuzione dei flussi turistici nel mese di gennaio nelle sole regioni alpine pari a 30.368 registrazioni per notte. I settori energetici mostrano una risposta più chiara agli aumenti delle temperature estreme, dove si osserva addirittura una riduzione dei consumi nelle stagioni eccezionalmente calde. Le stime mostrano, infatti, che il consumo di gas e di energia elettrica per uso domestico tendono a diminuire durante anni particolarmente caldi, sia durante il periodo estivo che invernale, con una diminuzione maggiore durante gli inverni più miti rispetto alla norma che non durante le estati estremamente calde. Nel 1994, anno particolarmente caldo, si stima che il consumo invernale di gas per uso domestico in media in Italia sia diminuito di 510.000.000 tep (tonnellate equivalenti di petrolio), pari ad una riduzione della spesa di 414 milioni di lire a prezzi correnti, ossia 213. 810 Euro. Riguardo alla salute, è stato valutato l’impatto del clima sulla mortalità dovuta a malattie di natura cardiovascolare e respiratoria. Le stime mostrano che elevate temperature nei mesi estivi tendono ad aumentare la mortalità, mentre temperature più elevate rispetto alla media durante i mesi invernali tendono a ridurla. Un aumento di 1° nella temperatura media estiva comporterebbe in media 27 morti in più in tutto il Paese. Sempre in base alle stime, l’estate eccezionalmente calda del 1994 avrebbe causato in media un aumento di 63 decessi nel Paese. In agricoltura solo alcuni pr

odotti risultano particolarmente sensibili all’aumento della temperatura, con conseguenti danni economici: la stagione eccezionalmente calda e asciutta del 1985, ad esempio, spiega una diminuzione del raccolto di patate in media in ogni regione pari a 13 quintali per ettaro, equivalente ad una perdita in moneta di 376.346 Lire per ettaro, a valori correnti, pari a ca. 194 Euro. Analogamente la stagione estrema del 1994 avrebbe comportato una diminuzione nella produzione di vino in media in ogni regione pari a 519 migliaia di ettolitri, con una perdita monetaria complessiva di 44.677.395 migliaia di Lire a valori correnti, equivalenti a 23 milioni di Euro. Il quadro delle risposte dell’agricoltura al clima tuttavia non è omogeneo: la produzione di frutta sia al Nord che al Sud sembrerebbe favorita dall’aumento della temperatura, mentre la produzione di grano non risulta essere particolarmente sensibile.

6.2.2 Innalzamento del livello del mare
L’aumento del livello del mare comporterà una crescita dei rischi per le zone costiere italiane. In particolare, si valuta che i maggiori problemi siano dovuti alla perdita di zone umide alla foce dei fiumi, nella invasione di acqua salata nelle falde costiere di acqua dolce con conseguenze sull’agricoltura e sulla disponibilità di acqua dolce, ed infine, nella maggiore e più rapida erosione delle spiagge basse e delle spiagge ottenute con opere di difesa idraulica delle coste e di zone bonificate. L’innalzamento del livello del mare oltre a comportare modifiche nell’assetto territoriale ha profonde implicazioni sull’agricoltura, sulla produzione industriale, sul turismo, sulla salute e sul settore assicurativo.

6.2.3 Vulnerabilità del suolo
La qualità dei suoli italiani, senza opportuni interventi, tenderà generalmente a deteriorarsi. In particolare, nell’Italia settentrionale gli equilibri idrologici potrebbero subire delle variazioni a causa della maggiore disponibilità d’acqua che comporta un degrado legato alle condizioni di maggior ruscellamento (o “run-off”) a cui sono sottoposti soprattutto i pendii e le zone collinari, più soggetti a problemi di franosità e di erosione. Mentre i terreni bassi nella zona del delta del Po potrebbero essere colpiti in maniera significativa da fenomeni di innalzamento del livello del mare e di intrusioni di acque salmastre. Nell’Italia meridionale, invece, i cambiamenti climatici prevedibili indurranno ulteriori fattori di rischio inclusi i rischi di desertificazione per i quali sono in corso opportuni studi nell’ambito dell’Annesso IV della Convenzione ONU per la lotta contro la desertificazione (cfr. § 6.2.6). La possibilità di ulteriore degrado a causa dei cambiamenti climatici è legata alla concomitanza di due fattori che gli attuali scenari di cambiamento climatico non stimano con certezza ma indicano come probabili, e cioè: la diminuzione delle precipitazioni totali annue al di sotto della soglia di circa 600 mm/anno; l’estensione dei periodi di siccità per periodi prolungati di molti mesi, soprattutto se in coincidenza con il semestre caldo (evapotraspirazione molto alta). Anche se irrigati, i suoli possono ugualmente degradare se le attività umane sul territorio (ed in primo luogo l’agricoltura) sono tali da indurre cambiamenti insostenibili nei terreni, ridurre la biodiversità e rendere non permanente qualsiasi tipo di equilibrio ecosistemico. Tuttavia, prevedere l’erosione del suolo è molto difficile, anche con modelli numerici sofisticati, a causa della mancanza di dati per verificare le ipotesi e le parametrizzazioni inserite nei modelli. Le conclusioni che si possono ragionevolmente ipotizzare sono di carattere generale e basati sulle conclusioni riportate nel Terzo Rapporto di Valutazione (TAR) dell’IPCC.

6.2.4. Cambiamenti climatici e agricoltura
L’incremento di temperatura previsto da IPCC influenzerà sia la vegetazione naturale che le coltivazioni. Ci si aspetta che in Italia Meridionale, si potrebbe avere un effetto particolarmente negativo sui sistemi locali, poiché sia vegetazione che terreni si trovano già in un regime di disponibilità idrica marginale. Da un lato, climi più caldi e secchi nelle regioni Centro-Meridionali potrebbero favorire l’espansione verso Nord di colture specifiche come l’olivo, la vite e gli agrumi. Dall’altro lato, gli aumenti di temperatura e gli effetti sul ciclo idrologico richiederanno cambiamenti di gestione in molte regioni. Ognuna delle variabili climatiche considerate influenzerà le colture in vari modi. Tuttavia, i risultati finali dipenderanno dalle interazioni simultanee di ognuna di queste. Per esempio, i raccolti di grano invernale, se vi sono sufficienti risorse idriche, non dovrebbero diminuire. La produzione agricola delle regioni settentrionali, potrebbe variare solo nella tipologia agroalimentare, senza subire complessivamente danni se vengono adottati migliori sistemi di drenaggio dell’acqua, di prevenzione dall’inquinamento delle falde e di protezione dei raccolti. Tra gli effetti indiretti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura va segnalata la perdita di suolo agricolo utile soprattutto nelle zone costiere dell’Alto Adriatico a causa dell’innalzamento del livello del mare e dell’intrusione dell’acqua salata in falda. I principali effetti diretti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura possono essere riassunti come segue:
• prolungamento del periodo vegetativo di circa 10-15 giorni per ogni °C di aumento della temperatura media annua e conseguente diminuzione del periodo freddo invernale. In tal modo verrebbero favorite le coltivazioni di ulivo, agrumi e vite nel Nord Italia e sfavorite le coltivazioni di cereali nel Sud Italia;
• spostamento verso nord e verso le alte quote montane di tutti gli ecosistemi: circa 100 Km verso nord e circa 150 metri verso l’alto per ogni °C di aumento della temperatura media annuale. Tali spostamenti rappresentano una situazione di potenziale danno per l’Italia sia a causa dell’orografia del territorio, sia per i tempi incompatibili tra spostamento degli ecosistemi e cambiamenti del clima;
• aumento della variabilità della distribuzione della precipitazione con possibilità di alluvioni in autunno e siccità in inverno e aumento della variazione della distribuzione degli estremi termici con possibilità di gelate e temporali violenti in primavera ed estate. Verrebbero quindi sfavorite le operazioni di semina dei cereali in autunno, si avrebbero una riduzione dei raccolti a ciclo invernale e primaverile e danni ai raccolti estivi e autunnali.

6.2.5 Foreste
Sebbene non sia ancora possibile distinguere, in base ai dati disponibili, sul territorio nazionale l’entità delle alterazioni climatiche di origine antropogenica dalle variazioni climatiche naturali, risulta evidente la vulnerabilità degli ecosistemi forestali agli incrementi di aridità ed alle modificazioni della linea di costa. Inoltre le deposizioni azotate, oltre a causare un aumento del pH del suolo, alterano i normali ritmi di crescita delle formazioni forestali stimolandone gli accrescimenti e soprattutto modificandone la fenologia ed esponendole, pertanto, a maggiori rischi di danni d’origine biotica ed abiotica. La risposta delle foreste italiane ai cambiamenti climatici presenta due andamenti, uno di segno negativo legato alla riduzione della disponibilità idrica e l’altro di segno positivo legato all’allungamento del periodo vegetativo ed alle deposizioni azotate. Nell’Italia centro-meridionale, l’aumento dell’aridità ha reso le foreste italiane più vulnerabili ai fattori di disturbo biotici ed abiotici riducendone la resistenza e soprattutto compromettendone la resilienza. Si notano, infatti, preoccupanti fenomeni di deperimento delle querce legati essenzialmente agli stress idrici verificatisi nell’ultimo ventennio. Dato allarmante considerando che le querce rappresentano circa il 26,5% del patrimonio forestale nazionale. A ciò si aggiunga che, in media, gli incendi danneggiano, più o meno gravemente, ogni anno 55.000 ha di superficie boscata con un incremento del 10% negli ultimi 20 anni. Si consideri inoltre che circa il 3% dei boschi si trovano in aree soggette a pericolo di sommersione. Risulta quindi che circa un terzo delle foreste italiane, a causa dei cambiamenti climatici, sono a serio rischio di distruzione. Ciò comporterà inevitabilmente anche una considerevole perdita di habitat e quindi di biodiversità. Nell’Italia centro-settentrionale di segno opposto appare essere il fenomeno di espansione della flora arborea determinato dall’allungamento del periodo vegetativo. Anche per quel che riguarda la produttività degli ecosistemi forestali, pur non essendovi dati, appare chiaro che vi è un effetto negativo legato ai fenomeni di deperimento, mentre vi è un effetto positivo determinato dall’allungamento del periodo vegetativo.

6.2.6 I cambiamenti climatici e la desertificazione
Vaste aree con climi secchi nel Mediterraneo soggette all’effetto combinato della pressione antropica sulle risorse naturali e dei cambiamenti del clima sono soggette ad una riduzione della produttività biologica ed economica delle attività agricole e degli ecosistemi naturali. In Italia, nelle regioni meridionali ed insulari, l’aridità è aumentata nel corso del ‘900 sia in termini di estensione delle aree interessate che di valori dell’indice utilizzato per valutarne l’intensità. Le aree aride, semi-aride e sub-umide secche interessano, attualmente il 47%, della Sicilia, il 31,2% della Sardegna, il 60% della Puglia, ed il 54% della Basilicata. Contemporaneamente, l’errata concezione ed applicazione di alcune politiche a sostegno dell’agricoltura, l’impiego irriguo di risorse idriche non idonee, gli incendi boschivi, la concentrazione dell’urbanizzazione nelle aree costiere hanno contribuito alla progressiva riduzione quantitativa e qualitativa della risorsa suolo. I principali processi fisici causa del degrado del suolo e quindi di desertificazione in Italia sono l’erosione, la salinizzazione, la perdita di sostanza organica e l’impermeabilizzazione. I futuri scenari di cambiamento climatico e le loro ripercussioni sulle molteplici cause che possono indurre degrado del suolo permettono di affermare che il territorio interessato da desertificazione aumenterà nel corso dei prossimi decenni qualora non vengano individuate ed attuate appropriate misure di mitigazione. Un cambiamento del clima influirà sulla desertificazione se si verificheranno incrementi dei seguenti fattori:• intensità delle piogge che accentueranno i fenomeni erosivi,
• evapotraspirazione che incrementerà la salinizzazione,
• aridità che contribuirà alla riduzione del contenuto di sostanza organica dei suoli, della siccità che metterà a rischio numerose attività antropiche.

6.2.7 Risorse idriche
Le stime effettuate in occasione delle due ultime campagne di studio della Conferenza nazionale delle Acque (CNA) sulla base dei dati pluviometrici relativi al periodo 1921-50, valutano che l’apporto globale delle piogge sul territorio nazionale è di 296 miliardi di m3. Questo apporto che si distribuisce in modo disomogeneo fra nord (41%), Centro (26%), Sud (20%) ed Isole (6%) si riduce a causa dell’evapotraspirazione e la risorsa netta utilizzabile risulta quindi di 52 miliardi di m3. Le risorse utilizzabili sono ripartite in acque sotterranee (5-13 milardi di m3) e acque superficiali (40 miliardi di m3) di cui circa 10 miliardi di m3 in invasi naturali ed artificiali. L’utilizzo di tali risorse è più intenso al Nord ove si utilizzano il 78% delle risorse rinnovabili disponibili nell’area, pari al 65% del totale nazionale; è particolarmente critico al Sud e nelle Isole dove gli utilizzi costituiscono il 96% della disponibilità dell’area, pari al 23% del totale nazionale. Il Centro utilizza il 52% delle risorse disponibili e risulta quindi l’area meno vulnerabile. I consumi idrici del settore agricolo, che risulta di gran lunga il maggior utilizzatore di acqua sia al Nord che al Sud e nelle Isole, sono soddisfatti al Nord utilizzando acque superficiali ed utilizzando invasi artificiali al Sud e nelle Isole. L’uso idropotabile è soddisfatto utilizzando prevalentemente acque sotterranee ma al sud acquista importanza fondamentale l’uso delle acque di invasi artificiali e di acquedotti interregionali. Sia le acque sotterranee che superficiali sono vulnerabili in quanto gli utilizzi di acqua sono in costante aumento e gli apporti meteorici sono invece stazionari o in diminuzione, ma la situazione dell’approvvigionamento nel Meridione è particolarmente critico a causa dei ripetuti episodi di siccità verificatisi negli ultimi anni.
L’approvvigionamento idrico nelle regioni Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna si sta configurando come un’emergenza di tipo sociale ed economico.



Le disponibilità idriche invasate nei sei invasi della regione Basilicata, nei cinque della Puglia, nei ventiquattro della Sicilia e nei trentuno della Sardegna sono costantemente diminuite nel corso degli ultimi anni sino a raggiungere nel gennaio 2002 un minimo che permette di fornire acqua solo per uso idropotabile.
La figura sotto riportata mostra, a titolo di esempio, l’evoluzione della situazione in Sicilia in seguito alla grave crisi di siccità del 1989-1990 per alcuni invasi. Si evince dal grafico che lo stato di riempimento medio degli invasi nel decennio considerato non ha mediamente superato il 50% della capacità massima non assicurando in tal modo le risorse necessarie allo svolgimento del normale programma irriguo. Ulteriori riduzioni nella disponibilità di risorse idriche costituirebbero un danno alle economie regionali mettendo in crisi anche l’approvvigionamento idropotabile. La attuale, ed ancor più la futura, pressione antropica sulle risorse idriche ed in particolare sul loro uso e sulla loro gestione, tenderà a diventare più acuta con i cambiamenti climatici. I rischi da alluvioni e da inondazioni tenderanno ad aumentare ed aumenteranno anche i rischi di disponibilità di adeguate risorse idriche, in particolare sul sud Italia, accentuando il divario economico già esistente tra Nord e Sud.

6.2.8 Ecosistemi
L’aumento della temperatura media e la crescita delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera possono cambiare gli equilibri degli ecosistemi naturali con modifiche anche nel paesaggio. La vegetazione e gli ecosistemi naturali più tipici dell’area mediterranea tenderanno a spostarsi verso nord e verso il centro Europa. Tenderanno ad aumentare il rischio di incendi boschivi e di perdita degli ecosistemi e della biodiversità attuale.

6.2.9 Ambiente alpino e montano
E presumibile che nelle zone montane più alte, l’aumento della temperatura oltre a portare ad uno spostamento verso le vette degli ecosistemi esistenti e ad un ritiro dei ghiacciai, possa perturbare anche il ciclo idrogeologico montano con ripercussioni sia sul bilancio idrico dei bacini imbriferi, sia sulla stabilità dei versanti.

6.2.10 Eventi estremi
Le tendenze previste da IPCC a livello globale avranno ripercussioni anche a livello nazionale. In particolare è possibile che aumenti la frequenza, ma soprattutto la intensità di fenomeni estremi quali siccità, alluvioni ed di altri fenomeni meteorologici particolarmente violenti (trombe d’aria, burrasche, groppi, ecc). La recrudescenza soprattutto dell’intensità dei fenomeni estremi porterà come conseguenza ad una variazione, probabilmente significativa, degli esistenti rischi di catastrofi naturali e della vulnerabilità del territorio nazionale, la cui valutazione di dettaglio è attualmente soggetta ad attente analisi. Il probabile aumento della frequenza e della intensità degli eventi meteorologici estremi, ipotizzati da IPCC, potrebbe portare anche in Italia ad un aumento dei danni economici e sociali sulle strutture ed infrastrutture residenziali e produttive, la cui entità dipende sia dalla diversa vulnerabilità delle singole strutture ed infrastrutture, sia dalla vulnerabilità ambientale e territoriale che in Italia non è uniforme, ma variamente distribuita. La crescita di eventi estremi, potrebbe incidere anche sulle attività produttive.

6.3 Misure di adattamento

6.3.1 Considerazioni generali sull’adattamento in Italia
Il Third Assessment Report dell’IPCC, relativamente agli impatti, adattamento e vulnerabilità, afferma che il potenziale di adattamento dei sistemi socio-economici in Europa è piuttosto alto, grazie alle condizioni economiche (PIL elevato e crescita stabile), ad una popolazione stabile e a sistemi politici, istituzionali e tecnologici ben sviluppati. D’altro canto, lo stesso rapporto indica come particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici le aree del Sud Europeo, soprattutto le zone costiere e quelle più marginali e con condizioni economiche più disagiate.
Data la topografia del nostro Paese, un’importante fonte potenziale di rischio è costituita dall’innalzamento del livello del mare, soprattutto a causa della marcata presenza sia di zone residenziali, sia di attività economiche nelle aree costiere italiane. Di conseguenza, nelle zone litoranee che, in seguito a recenti studi condotti soprattutto dall’ENEA, risultano più vulnerabili, è auspicabile un intensificarsi della ricerca sulle migliori opzioni di adattamento, anche dal punto di vista di efficienza economica. Sebbene l’evidenza degli ultimi anni sia per un livello del mare piuttosto stabile, le previsioni per i decenni futuri sono soggette ad un fortissimo grado di incertezza. Inoltre, è possibile prevedere che, anche se le medie delle temperature e i valori del livello del mare tendono ad aumentare lentamente con impatti poco percettibili, la frequenza dei fenomeni estremi, quali inondazioni ed alluvioni, tenderà ad aumentare nei prossimi anni. In considerazione di ciò, rimandare interventi di protezione delle coste e degli argini di fiumi e laghi fino a che non si rendano assolutamente necessari potrebbe rivelarsi una strategia perdente, a causa del rischio di ingenti perdite di capitale fisico. La stessa conclusione riguardo all’opportunità di predisporre preventivamente determinate misure di adattamento, in particolare se di lunga durata e non recuperabili, è stata raggiunta con una dimostrazione economica formale, da Fankhauser et al. (1999). Un comportamento pro-attivo rispetto all’adattamento avrebbe, inoltre, sicuri benefici sul settore assicurativo, riducendo di molto la tendenza al levitare dei premi nel settore property che si sta osservando in questi ultimi anni.
Settori quali il sistema delle acque e l’agricoltura, destinati a subire forti impatti nei prossimi decenni, necessitano altresì di importanti misure di adattamento, e in questo caso l’entità del pericolo di un posticipo degli interventi è assai più chiaro. Basti pensare alla difficilissima situazione che ampie zone del Sud Italia, e in particolare la Sicilia e la Sardegna, stanno sperimentando, in seguito ad una stagione invernale particolarmente secca: da mesi la disponibilità di acqua è ridottissima anche per gli usi domestici, cosicché il settore agricolo viene penalizzato ancor più rispetto alla norma. Oltre a ragioni climatiche ed ambientali, a favorire un processo di desertificazione nel Sud concorre anche la carenza infrastrutturale ed un’inefficienza e cattiva gestione delle strutture esistenti. Progetti di fondamentale importanza quali la riparazione o sostituzione di lunghi tratti della rete idrica o la costruzione di condotte ed impianti di pompaggio in molte zone del Sud comportano grossi impegni finanziari, ma tali spese non dovrebbero interamente rientrare nella categoria dei costi di adattamento, trattandosi di interventi no-regret, ossia necessari anche a prescindere dall’impatto dei cambiamenti climatici. Nell’Italia settentrionale, per l’agricoltura dovrebbero essere sufficienti investimenti economici molto meno ingenti: si tratterebbe fondamentalmente di modificare i sistemi di gestione delle acque ed alcune pratiche agricole, con interventi strutturali limitati. Rispetto al rischio di danno alle coltivazioni in seguito ad alluvioni, massicce misure di protezione degli argini e la predisposizione di piani di emergenza saranno invece necessarie soprattutto al Nord. Un’altra modalità d’intervento assai auspicabile è quella dell’informazione del mondo agricolo rispetto alle tendenze climatiche future, alle coltivazioni e alle pratiche agricole più adatte nella nuova situazione, in modo da favorire un adattamento autonomo tempestivo, che ridurrebbe di molto le possibili perdite monetarie nel periodo di transizione verso i nuovi scenari climatici. Infine, è importante evitare di dare segnali di mercato distorti. Permettere ai segnali di mercato di guidare le scelte degli agenti verso un corretto adattamento è di importanza fondamentale poiché le persone modificano i loro comportamenti solo nel caso in cui questo cambiamento si traduca in un aumento di benessere.
È auspicabile che rientrino nell’agenda di programmazione economica anche interventi a favore di altri settori vulnerabili ai cambiamenti climatici con un forte impatto sulla sfera sociale, come la sanità pubblica. A tale riguardo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta coordinando uno studio finanziato dall’Unione Europea (Climate Change and adaptation strategies for human health in Europe), che si concluderà nel 2004, volto alla valutazione della vulnerabilità della popolazione europea agli impatti sulla salute derivanti dai cambiamenti climatici, nonché all’individuazione delle politiche di adattamento per la salute più efficaci, anche da un punto di vista economico. È assai probabile che un caso studio sarà proprio sull’Italia. Altri settori ad elevata vulnerabilità, quali il turismo ed il settore energetico (in particolare idroelettrico), pur essendo a forte connotazione privatistica, potrebbero necessitare di sussidi economici per raccogliere le nuove sfide derivanti dai cambiamenti climatici.

6.3.1.1 Breve analisi critica della letteratura in tema di dimensione economica dell’adattamento alla luce della realtà italiana
Valutazioni economiche relative all’adattamento in Italia sono quasi inesistenti. Ci sono, in particolare, studi legati a problematiche molto specifiche, come l’acqua alta a Venezia, che hanno un enorme valore a livello locale, ma non possono dare informazioni generali rispetto all’incidenza dell’adattamento sull’economia italiana. A questo riguardo, esistono alcuni lavori di tipo accademico che, adottando un approccio di modellistica, mirano a valutare i risvolti economici di determinate tipologie di intervento. Ad esempio, dall’analisi dei risultati di alcuni autori (Cline, 1992, Tol, 1995, Fankhauser, 1995) è possibile tentare una quantificazione dei costi dell’adattamento rispetto all’impatto totale del cambiamento climatico. Le stime che ne derivano sono dell’ordine del 7-25% rispetto al costo totale (1) (si richiama che il costo totale viene generalmente calcolato intorno al 2% del PIL nazionale nei Paesi Sviluppati). Va però tenuto conto del fatto che l’affidabilità di misurazioni di questo genere è assai limitata, sia perché non si tengono in alcun conto le specificità dei singoli Paesi, sia perché vengono considerate solo alcune misure di adattamento. In particolare, solamente le seguenti voci di costo sono state prese in considerazione fra i costi di adattamento:
• protezione delle coste;
• spese per la climatizzazione degli ambienti;
• costi di migrazione e re-insediamento della popolazione.
Negli studi in cui si prevede adattamento in altri settori, come l’agricoltura o la salute pubblica, si assume implicitamente che tali politiche non diano luogo a costi per la società.
Altri studi prendono in considerazione singoli problemi, come l’innalzamento del livello del mare, con lo scopo di definire l’impatto economico totale del fenomeno, considerando anche l’adattamento. A questo riguardo, è molto istruttivo il modello di Fankhauser (1995), che ha l’obiettivo di derivare la percentuale ottimale di protezione delle coste da un punto di vista di efficienza economica, ossia di minimizzazione del costo totale, fornendo dati disaggregati per i singoli Paesi, compresa l’Italia. Sotto le ipotesi del modello (tra cui un aumento del livello del mare pari a 100 cm nel 2100), all’Italia converrebbe proteggere quasi interamente le sue coste, dato l’alto valore economico di gran parte del nostro litorale. In particolare, in corrispondenza di città e porti si ottiene un valore molto prossimo al 100%, per le coste aperte la percentuale ottima scenderebbe al 95% (contro una media OECD pari all’80%), mentre per le spiagge si avrebbe l’ottimo in corrispondenza del 90%, contro una media dell’OECD del 57%. Per quanto riguarda l’adattamento in agricoltura, esistono alcuni studi volti ad analizzare l’impatto di specifiche politiche sulla produzione di certe colture. Stando alle nostre informazioni, nessuno di questi lavori considera esplicitamente il caso italiano. Le politiche previste dai vari studi possono essere sia di tipo tecnico (modificazioni nella gestione delle semine e dei raccolti), sia istituzionale (distribuzione delle risorse idriche) ed essere applicate in maniera più o meno intensiva a seconda degli scenari. I risultati mostrano in generale che anche un moderato adattamento può ridurre di molto il danno apportato all’agricoltura dai cambiamenti climatici, ma la misura del danno evitato varia enormemente a seconda delle ipotesi sottostanti il singolo studio. Purtroppo, nessuno di questi studi considera la componente di costo associata alle politiche di adattamento considerate. In alcuni di questi modelli e sotto certe ipotesi, nel passaggio da uno scenario di non-intervento ad uno in cui è previsto l’adattamento, la perdita economica si trasforma in un guadagno. Questo risultato potrebbe forse dimostrarsi corretto per l’Italia settentrionale, dove non è prevista una diminuzione della produzione nel caso in cui i coltivatori sfruttino al meglio le nuove opportunità nate dallo spostamento a Nord degli ecosistemi. Nel Sud, le problematiche legate alla desertificazione potranno invece essere solo parzialmente limitate da oculate misure di adattamento. In generale, da una rassegna della letteratura esistente in tema di aspetti economici dell’adattamento, si può osservare che le informazioni derivabili da tali studi sono di scarsa utilità per i decisori pubblici e che la scelta dovrebbe essere dettata ogni volta dalle specificità locali, rendendo quindi necessario un numero assai elevato di studi ad hoc, con un notevole costo.

6.3.2 Sollevamento del livello del mare
In relazione al sollevamento relativo (2) del livello dei mari italiani, fenomeno particolarmente sensibile nelle zone delle pianure costiere, vi sono stati nel corso degli ultimi decenni alcune azioni di adattamento dell’uomo rispetto a quanto sta avvenendo. L’attuazione del piano Mose a Venezia può essere considerato uno dei più rappresentativi sforzi dell’uomo per fronteggiare il fenomeno del sollevamento marino. Esso dovrebbe servire a “calmierare” le quote di picchi massimi raggiunti durante il fenomeno dell’acqua alta, che recentemente, per motivi legati all’effettiva subsidenza, ma soprattutto per motivi meteo-climatici (prevalenza di venti dai versanti meridionali), aveva raggiunto quote e cadenze preoccupanti. Per contrastare le conseguenze negative dell’aumento relativo del livello di mari italiani, altre misure potrebbero essere adottate, tra le quali si segnalano:
1) opere di canalizzazione e pompaggio con idrovore di zone anche depresse in seguito a bonifiche;
2) dismissione di pozzi per gas-idrocaburi e acqua;
3) ripascimento di sabbie;
4) cuneo salino.

6.3.2.1 Opere di canalizzazione e pompaggio con idrovore di zone anche depresse in seguito a bonifiche
In seguito a numerosi processi di bonifica operati in tutto il territorio nazionale dai primi anni di questo secolo fino al presente, in quasi tutte le piane costiere con aree depresse si trovano canalizzazioni artificiali ed impianti idrovori, in grado di pompare artificialmente acque da zone depresse dentro al mare. Queste opere, inizialmente progettate per liberare da paludi stagnanti suolo da dedicare alla pratica agricola, sono oggi una notevole risorsa in grado di contrastare il fenomeno di sollevamento del mare. Uno studio mirato alla conoscenza delle eventuali modifiche operate sugli impianti (quota, potenza, consumi, ecc) nel corso del tempo nelle diverse pianure sarebbe auspicabile.
6.3.2.2 Dismissione di pozzi per gas-idrocaburi e acqua
Nella zona compresa tra Cesenatico e Ravenna si sono verificati a cavallo tra gli anni ’60 e ’80 fenomeni di subsidenza di notevole entità che hanno sfiorato i 10 cm/anno. In seguito è stata decisa la chiusura di pozzi metaniferi ma anche di sfruttamento di acque, la risposta a questi “adattamenti” è stata quasi immediata, ed i tassi di subsidenza sono ritornati ai livelli più accettabili di mm/anno.

6.3.2.3 Ripascimento di sabbie
Per meri scopi turistici, in seguito all’erosione costiera, vengono annualmente spese somme di centinaia di miliardi per ricostituire il manto sabbioso eroso per motivazioni varie. Ciò avviene evidentemente solo in zone il cui indotto turistico permette di far fronte alle spese.

6.3.2.4 Cuneo salino
Nelle zone costiere l’equilibrio che si viene a formare tra la falda di acqua dolce e quella salina costituisce un “sistema” non stabile che dipende da numerosi fattori: se il livello di base relativo al mare sale, di conseguenza varia l’equilibrio (in senso negativo); se la falda acquifera dolce decresce (in seguito a sovrasfruttamento) si rompe l’equilibrio. In molte zone costiere italiane il concorso di questi due motivi ha portato ad intrusioni fino a 3/4 chilometri all’interno della costa di cuneo salino. Operando con la chiusura e/o regolamentazione del pompaggio d’acqua, in alcuni casi sono stati raggiunti risultati positivi. Nella norma le pianure costiere depresse interessate da canalizzazioni non hanno mostrato avanzamenti preoccupanti negli ultimi 30 anni.

6.3.3 Desertificazione
Il Governo italiano, riconosciuta la significatività del problema della desertificazione sul suo territorio, ed avendo aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione, ha predisposto un Programma di Azione Nazionale (PAN). Il PAN, approvato con delibera CIPE il 21 Dicembre 1999, ha tracciato un percorso di informazione e di coinvolgimento delle Regioni e delle Autorità di Bacino (AdB) per l’individuazione delle aree vulnerabili e per la definizione degli interventi di prevenzione, mitigazione ed adattamento. Le Regioni e le AdB sono state coadiuvate da un gruppo di lavoro che ha predisposto le linee guida ed ha realizzato una sintesi delle proposte pervenute. Dieci Regioni ed undici AdB con una copertura del territorio nazionale dell’87% hanno presentato i loro programmi al Comitato Nazionale per la lotta alla Desertificazione. Il PAN ha infatti esteso il suo ambito di interesse anche alle zone non aride che comunque risultano interessate da fenomeni di degrado del territorio anche a prescindere dai fattori di pressione generati dal clima. Sulla base dei Programmi delle Regioni e delle AdB sono state individuate le priorità e le necessità finanziarie per l’attuazione della lotta alla desertificazione in Italia. Il piano di interventi prevede la realizzazione di studi e ricerche, di infrastrutture e di attività di formazione ed informazione relativamente ai settori della protezione del suolo, della gestione sostenibile delle risorse idriche, la riduzione di impatto delle attività produttive ed il riequilibrio del territorio. L’attuazione del piano non prevede l’allocazione di risorse finanziarie specificamente destinate alla lotta alla desertificazione ma richiede la compenetrazione dei principi e delle priorità di tutela del territorio nelle politiche settoriali che hanno un impatto sulla desertificazione facendo ricorso quindi all’impiego dei fondi strutturali, a piani stralcio da realizzare all’interno degli strumenti normativi quali la legge 183/89 sulla Difesa del Suolo.

6.3.4 Agricoltura
Le linee di azione previste in Italia per affrontare gli effetti indesiderati in agricoltura ricalcano le indicazioni contenute nell’Agenda 21 delle Nazioni Unite. Esse consistono in:
• un’attenta pianificazione del territorio e dell’uso dei suoli con una visione multifunzionale tenendo conto dei cambiamenti globali in atto e previsti;
• una produzione agricola diversificata e compatibile con le caratteristiche dei suoli e della fascia climatica a cui appartiene il territorio destinato ad uso agricolo;
• la protezione e conservazione della diversità biologica ed ecologica e del patrimonio genetico esistente sia in termini di risorse genetiche vegetali che animali;
• l’uso efficiente di energia nelle pratiche agricole e di produzione alimentare;
• un’attenta pianificazione dell’uso delle risorse idriche di superficie e di falda in modo compatibile con le esigenze agricole, umane ed industriali, ma con particolare riguardo a:
a) miglioramento delle infrastrutture per l’accumulo e la conservazione dell’acqua;
b) eliminazione degli scarichi inquinati e degli inquinanti che contaminano le risorse idriche;
c) riduzione drastica degli sprechi dell’acqua.

6.3.5 Foreste
Le azioni di protezione del patrimonio forestale contribuiscono alla prevenzione dei fenomeni di degrado e di desertificazione. Occorrerà prendere in considerazione le seguenti misure:
• favorire l’incremento della biodiversità specifica e strutturale delle foreste italiane incrementandone in tal modo la resistenza e la resilienza ai disturbi. Così facendo se ne aumentano le possibilità di adattamento alle condizioni climatiche in continua evoluzione e ci si assicura la presenza di una copertura arborea, nello spazio e nel tempo, del suolo anche se con formazioni forestali diverse dalle attuali;
• realizzare sulle superfici nude abbandonate nuovi impianti forestali polispecifici;
• realizzare fasce di vegetazione arborea nel paesaggio agro-industriale e nelle zone urbane;
• attuare efficaci politiche di prevenzione ed estinzione degli incendi.

6.4. Il quadro normativo delle misure di adattamento ai cambiamenti climatici
Non esiste in Italia una normativa in cui viene direttamente e specificamente citato l’adattamento ai cambiamenti climatici. Essa va rinvenuta nei provvedimenti presi a difesa del suolo (dissesto e rischio idrogeologico), nella bonifica dei siti inquinati, delle attività estrattive, della subsidenza, del rischio sismico, della vulnerabilità idrogeologica, nella normativa riguardante le aree aree protette, gli habitat naturali, le specie faunistiche e floristiche e le bellezze naturali e in quella relativa alla gestione delle risorse idriche e tutela delle acque. Viene indicata in allegato un tabella sinottica relativa al quadro normativo italiano comprensiva sia di misure volte alle misure di mitigazione che a quelle riconducibili all’adattamento ai cambiamenti climatici (cfr. allegato 2).

6.5 La valutazione di vulnerabilità, gli impatti dei cambiamenti climatici e l’adattamento nei documenti programmatici del Governo italiano

6.5.1 1998 linee guida del Piano Nazionale di Ricerca per la Protezione del Clima
Il Ministero dell’Ambiente ha redatto nel 1998 le linee guida del Piano Nazionale di Ricerca per la Protezione del Clima. Tra gli obiettivi del Piano figura il potenziamento e l’analisi delle misure di risposta e della ricerca tesa allo sviluppo di nuove tecnologie finalizzate a mitigare gli effetti e o a ridurre l’emissione dei composti pericolosi per l’evoluzione del clima, inclusi studi di fattibilità, analisi costi-benefici e analisi di efficacia delle strategie di risposta. In particolare, le attività di ricerca dovranno studiare e garantire in modo trasversale la considerazione degli aspetti normativi, istituzionali e tecnologici, il ruolo degli operatori (imprese, associazioni di settore, ecc.), degli utenti e dei consumatori (fabbisogni e ruolo possibile) e la messa a punto di strumenti di accordo, premio, certificazione (3).

6.5.2 Delibera CIPE sui temi di ricerca prioritari del Programma Nazionale di Ricerca sul clima, 21 dicembre 1999
Il 21 dicembre 1999, il CIPE (Comitato Intergovernativo per la Programmazione Economica) ha approvato i temi di ricerca prioritari del Programma Nazionale di Ricerca sul clima per il triennio 1999- 2001 (4). Tra i temi indicati figura lo studio degli impatti del cambiamento climatico nella regione mediterranea e vulnerabilità dell’Italia, nell’ambito dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), al fine di valutare gli effetti su:
• ecosistemi terrestri ed acquatici, con particolare riferimento alla modifica dell’estensione delle foreste e della tipologia di flora e fauna prevalenti, alla variazione dell’estensione dei ghiacciai e della copertura nevosa, all’erosione dei suoli, all’aumento del livello del mare e alla modifica delle zone umide costiere;
• risorse d’acqua, con particolare riferimento alla variazione della consistenza e della distribuzione delle disponibilità idriche per l’alimentazione umana e per gli usi irrigui;
• disponibilità di risorse alimentari e legname, con particolare riferimento alla variazione di produttività agricola dei suoli per usi alimentari e per altri usi industriali o energetici;
• salute umana, in relazione alla emergenza delle patologie connesse alle “onde di calore”, gli effetti delle radiazioni UVB, allo smog fotochimico, alla emergenza di nuove malattie infettive e alla trasmissione di malattie infettive già note. La delibera CIPE prevede inoltre che per le strategie di risposta agli effetti dei cambiamenti climatici sull’Italia, verrà data particolare attenzione all’elaborazione di misure per la conservazione e l’estensione delle foreste; la protezione del suolo dalla perdita di humus e dai dissesti idrogeologici; la protezione della zona costiera dell’alto Adriatico e della laguna di Venezia dall’innalzamento del livello del mare.

6.5.3 Agenda 21 locale in Italia
Il Ministero dell’Ambiente è attivamente impegnato a sostenere lo sviluppo di esperienze ed iniziative di Agende 21 locali attraverso forme di incentivazione, come il Premio “Città Sostenibili”. Nel febbraio 2000, le amministrazioni locali che avevano aderito alla “Carta di Aalborg”, Campagna Europea Città sostenibili erano 51. Con tale adesione, le amministrazioni locali, oltre a prendere atto dei problemi relativi ai concetti di sostenibilità ambientale in generale, quali l’equità sociale, l’adozione di modelli sostenibili di uso del territorio, la conservazione della biodiversità, la promozione del coinvolgimento dei cittadini, dei gruppi di interesse e del mondo economico alle problematiche ambientali, prendono atto delle responsabilità in merito alle problematiche climatiche a livello planetario e si impegnano ad adottare misure per la prevenzione dell’inquinamento degli ecosistemi.
Tuttavia in Italia la diffusione territoriale dell’Agenda 21 deve essere ancora potenziata in modo particolare nelle regioni del Centro-Sud. Vi sono ancora molti ostacoli e resistenze. Molti comuni devono essere raggiunti dall’informazione ed avere accesso diretto al circuito europeo per poter esprimere il loro interesse in materia. Molti contesti territoriali del nostro paese aggregano realtà comunali diverse, ma omogenee per caratteri economico-ambientali e potrebbero condividere e progettare proprie strategie di sviluppo attraverso la messa in opera di strutture di coordinamento, di indirizzo e di governo comuni (5).

6.5.4 Presentazione del piano nazionale di sviluppo sostenibile, 5 dicembre 2000
Il 1° aprile 1999 il Ministro dell’ambiente ha dato incarico ad un esperto della Commissione tecnicoscientifica del Ministero stesso di predisporre il Piano Nazionale di Sviluppo Sostenibile. Il piano, presentato il 5 dicembre 2000 (6), mira a dare indirizzi di sviluppo sostenibile. Pur non accennando esplicitamente i problemi relativi alla vulnerabilità climatica, nel mettere in evidenza le grandi lacune nazionali in materia ambientale tocca settori connessi direttamente e indirettamente alla vulnerabilità climatica. Tra gli snodi più importanti per l’integrazione delle politiche ambientali viene annoverato il territorio in quanto destinatario finale di tutte le politiche pubbliche, facenti capo a una pluralità di soggetti che agiscono senza una logica unitaria, ma perseguendo obiettivi settoriali spesso divergenti. Viene auspicata la definizione di una strategia per il territorio da attuare in collaborazione con il Governo, le Regioni e gli enti locali.

6.5.5 Delibera CIPE per il Programma Nazionale della Ricerca, 21 dicembre 2000
Il 21 dicembre 2000, il CIPE ha approvato il Programma Nazionale della Ricerca (7) dove è prevista la messa in atto del Programma Strategico Sviluppo Sostenibile e Cambiamenti Climatici. Tale programma intende rispondere ad una domanda di ricerca caratterizzata da un ampio spettro di problematiche riguardanti: la variabilità climatica stagionale ed interannuale, i cambiamenti climatici su scale decennali e secolari, gli effetti climatici diretti e indiretti dei cambiamenti nella composizione chimica dell’atmosfera, i cambiamenti negli usi e destinazione del suolo e negli ecosistemi acquatici e terrestri, le strategie di risposta e le misure di mitigazione, gli effetti sulla salute pubblica. Per rispondere alle esigenze sopra indicate, il Piano prevede la realizzazione di una infrastruttura di ricerca, caratterizzata come Centro Euro Mediterraneo per la Ricerca sui Cambiamenti Climatici a supporto della rete dei Centri e dei Laboratori di Ricerca coinvolti nel Programma.(7)

(...)



(*) Il documento è consultabile in versione integrale, in lingua italiana ed inglese, al sito Internet www.minambiente.it.
(1) Il costo totale associato all’impatto dei cambiamenti climatici viene considerato, in letteratura, pari alla somma dei costi di adattamento e del danno residuo.
(2) Per sollevamento relativo si intende la sommatoria di tutti i movimenti che fanno apparire il livello del mare in sollevamento.
(3) Linee guida del Piano Nazionale di Ricerca per la Protezione del Clima. Avverbi edizioni, 1998, pag. 16.
(4) Delibera CIPE 226/99.
(5) Linee guida per le Agende 21 locali, Manuale ANPA in collaborazione con Ambienteitalia, 2000.
(6) Piano Nazionale di Sviluppo Sostenibile. Predisposto da Mario Signorino, presentato al Ministero dell’ambiente il 5.12.2000 in esecuzione del DM GAB/dec/884/99 1.4.1999.
(7) Programma Nazionale della Ricerca, approvato dal CIPE il 21.12.2000, pagg. 29-30.

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